di Andrea Tortoreto
La pervasività della figura di Ulisse nel corso della storia, il suo manifestarsi nelle varie forme della narrazione, dal Cinema di Kubrick al romanzo di Joyce fino alle raffigurazioni metafisiche di De Chirico, palesa come il mito trovi costantemente spazio nelle vicende umane. E, insieme lui, al suo racconto, si manifesta inevitabilmente la necessità di trovarne un’interpretazione, una lettura che ne espliciti significati e insegnamenti, che ne indaghi il senso ultimo nell’orizzonte dell’esistenza.
Da tale esigenza è scaturito un Ulisse di volta in volta simbolo dell’esilio o del naufragio esistenziale, del superuomo o dell’amore per la patria, della perdita di certezze come della follia. Le gesta dell’eroe omerico hanno colpito nel profondo la sensibilità di alcune tra le più grandi personalità dell’arte o della filosofia di ogni tempo; per via degli eventi tormentati che ne hanno caratterizzato la figura. Strazio, eroismo, angoscia e passione trovano una sintesi superba in Ulisse, erigendolo a simbolo, così profondamento terreno nell’essere quasi divino, della condizione umana.
Emblematica nella sua attualità, tra le infinite raffigurazioni di Odisseo, quella offerta da De Chirico in una delle sue opere più mature: Il ritorno di Ulisse. Qui, guardando in una stanza, come se osservassimo dall’esterno attraverso una finestra, incrociamo lo sguardo di Ulisse, intento a spingere a remi una barchetta che viaggia tra le onde di un tappeto d’acqua. L’interno è un insieme di auto-citazioni da parte dell’autore che, tramite la personale descrizione del viaggio di Ulisse, ripercorre metaforicamente la propria esistenza, fino all’approdo sulle rive della metafisica. Quest’ultima non costituisce il chiarimento fideistico del senso ultimo, ma il racconto senza fine della ricerca umana, una ricerca che muove dal e nel mistero. Questo incombente e persistente senso dell’ignoto accompagna infatti Ulisse nel suo peregrinare, restando all’orizzonte, come mostra la porta socchiusa in fondo alla stanza che lascia intravedere un’oscura ombra, un abisso di inspiegabile nero.
Odisseo non è più il simbolo dell’anelito umano alla conoscenza, la sua vicenda non è più la narrazione mitica della volontà di potenza, ovvero di colui che, eroicamente, ritrova la via per il ritorno in patria, bensì quella di un individuo che guarda nella voragine della solitudine, che accetta il costante peregrinare nell’ignoto, nell’angoscia di una domanda eterna, senza risposta. Così profondamente umano, troppo umano, da essere, forse, autenticamente eroe. Perché, questa è la domanda che riecheggia inevitabilmente nelle nostre menti, mentre scrutiamo da quella finestra, chi può reggere un tale peso? Quale uomo, se non un eroe, può assumere su di sé un simile fardello?
Ritorna allora alla memoria addirittura Platone. In uno dei miti più belli, raccontatici dal grande filosofo, ci sono dei passi memorabili che riguardano proprio Ulisse. Si tratta del Mito di Er, posto a conclusione dello scritto platonico più ambizioso: La Repubblica. Qui, nel libro X, Platone affida alla narrazione mitologica la spiegazione, forse razionalmente inconcepibile, dell’immortalità dell’anima e del ciclo della reincarnazione. È un mito potente, per certi versi stordente nel mostrare l’eterno peregrinare delle anime chiamate a scegliere, sulla base delle azioni passate, la forma della propria vita futura. Si susseguono guerrieri e atleti, che scelgono destini di gloria e successi, fin quando non giunge Odisseo. Questi, provato da una vita leggendaria, sfinito dal viaggio che solo un eroe mitico avrebbe potuto sopportare, sceglie la pace di un’esistenza insignificante, il riposo di una vita insulsa. Si toglie il fardello dalle spalle, lo getta via e indica un futuro di normalità, la vita più banale che si possa immaginare.
C’è compassione nella parabola di Platone, c’è lo sguardo pietoso di chi ha compreso la sofferenza ma, soprattutto, c’è la gratitudine del pensatore che sa quanto sia improbo il compito di vivere nell’angoscia della domanda eterna.
C’è il grazie pronunciato da ogni uomo nei riguardi di chi ha saputo ergersi a simbolo di un comune, tragico destino.